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L'Avv. VANIA SCIARRA è avvocato matrimonialista specializzato nel diritto di famiglia, in particolare nella soluzione stragiudiziale e giudiziale delle controversie in ambito matrimoniale, SEPARAZIONI e DIVORZI, e nell'ambito di CONVIVENZA more uxorio.
E' possibile ricevere assistenza legale - oggi grazie anche all'introduzione del PCT (Processo Civile Telematico) - SULL'INTERO TERRITORIO NAZIONALE, ed in tempi brevissimi, grazie agli interventi legislativi di modifica apportati in materia con il D.L. 12 settembre 2014 n. 132 (G.U. n. 212 del 12.09.2014)(Procedura di negoziazione assistita da un avvocato - Divorzio breve).




Divorzio, la disciplina delle spese ordinarie e straordinarie per i figli



Divorzio, la disciplina delle spese ordinarie e straordinarie per i figli
L’articolo 30 della Costituzione si apre con la fondamentale ed inequivocabile disposizione secondo la quale: ‘‘è dovere e diritto dei genitori mantenere istruire ed educare i figli, anche se nati fuori dal matrimonio’’. Tale disposizione viene confermata ed attuata dal legislatore attraverso differenti norme dettate all’interno del codice civile, come l’articolo 147 c.c., 148 c.c., 155 c.c. e da ultimo l’articolo 315 bis, comma 1, come modificato dall’importante riforma dettata con legge n. 219 del 2012, finalizzata a garantire una totale equiparazione tra figli legittimi e figli naturali.

La procreazione alla base dell’obbligo
Documenti
Il dovere di mantenere i figli minorenni o maggiorenni non economicamente autosufficienti, come la giurisprudenza ha più volte sottolineato (Corte Cass., sez. I, n. 15063, del 22 novembre 2000; Cass. civ., sez. I, n. 10124, del 26 maggio 2004; Cass. civ., sez. I, n. 6197; 22 marzo 2005), trova il proprio fondamento nel fatto stesso della procreazione e non certo nel tipo di legame sentimentale e giuridico sussistente tra i genitori. Da tale circostanza consegue automaticamente che nei casi di crisi familiare tali doveri persistono ed il loro adempimento debba essere ancor meglio garantito. Si rischia, infatti, che proprio sulla prole, a causa dell’interruzione del rapporto sentimentale tra le due figure genitoriali, si riversino una serie di conseguenze negative e pregiudizievoli per la stessa.

Ponendo particolare attenzione al dovere che i genitori hanno di contribuire al mantenimento della prole si evidenzia facilmente come la regolamentazione dello stesso sia uno tra i temi più dibattuti nelle aule dei tribunali. Non mancano, infatti, profili poco chiari che sollevano problematiche e dubbi di vario genere a cui la giurisprudenza cerca, per quanto possibile, di fornire adeguate risposte ma non sempre costanti e concordanti. Una tra le questioni più discusse in proposito resta ancora oggi quella sulla qualificazione e precisa distinzione tra ‘‘spese ordinarie’’ e ‘‘spese straordinarie’’.

Cosa dice la norma
Nella pronunce giurisprudenziali concernenti l'affidamento dei figli minori, tanto che venga adottato il modello bigenitoriale di affidamento condiviso, quanto il modello monogenitoriale di affidamento esclusivo, ormai rilegato ad ipotesi eccezionale, il giudice, secondo quanto disposto dall’articolo 155 c.c., comma 2, determina tra le altre cose ‘‘la misura e il modo con cui ciascuno di essi deve contribuire al mantenimento, alla cura, all’istruzione e all’educazione dei figli’, ed inoltre, secondo quanto disposto al successivo comma IV°, ‘‘il giudice stabilisce, ove necessario, la corresponsione di un assegno periodico al fine di realizzare il principio di proporzionalità’’.

La prassi dell’assegno
Seppur la legge n. 54 del 2006 prescrive quale regime preferibile quello del mantenimento diretto, tuttavia, la maggioranza, se non quasi la totalità dei provvedimenti giudiziari in materia, dispone a carico del genitore non collocatario (o non affidatario) l’obbligo di corrispondere un assegno mensile a titolo di contribuzione al mantenimento della prole, oltre a fissare una percentuale (100%; 50%; 70% etc.) a suo carico dell’entità delle spese straordinarie (tra le tante pronunce esemplificative, soprattutto in sede di adozione dei provvedimenti presidenziali provvisori ed urgenti ex articolo 708 c.p.c., si può richiamare Tribunale di Roma, sez. I, ord. 07 dicembre 2012, in cui il Presidente dispone che: ‘‘ il padre corrisponderà alla madre, quale contributo perequativo per il mantenimento dei figli, la somma di euro 800,00 mensili (…), oltre rivalutazione secondo gli indici Istat, da corrispondere al domicilio dell’avente entro il 5 di ogni mese, a partire da dicembre 2012; il padre corrisponderà inoltre il 100% delle spese di carattere straordinario, previamente concordate tra i genitori, necessarie per i minori’’. Di portata analoga tante altre pronunce potrebbero essere richiamate).

L’individuazione delle spese straordinarie
Uno tra i problemi più consistenti riguarda, appunto, l’individuazione corretta di cosa i giudici intendano per ‘‘spese straordinarie’’, data l’assenza di qualsiasi specifica definizione normativa in proposito. Il legislatore, forse al fine di garantire la ricerca da parte dei giudici della migliore soluzione per le singole fattispecie concrete, non detta alcuna disposizione destinata ad elencare e distinguere precisamente le spese attinenti al soddisfacimento dei bisogni della prole, tra ‘‘spese straordinarie’’ e ‘‘spese ordinarie’’.

Spese straordinarie fuori dal forfait

A tal riguardo, dunque, è compito dei giudice individuare, per quanto possibile in modo analitico e dettagliato lì dove sorgano contrasti tra i genitori, quali spese vadano ascritte all’una o all’altra categoria. Lì dove, infatti, si parli di ‘‘spese ordinarie’’ il genitore non collocatario (o non affidatario) della prole vi contribuisce già attraverso il mantenimento diretto e/o l’assegno periodico disposto a suo carico, inglobamento che non sussiste invece per le ‘‘spese straordinarie’’. Alla luce della giurisprudenza più recente, inoltre, è necessario specificare come le ''spese straordinarie'' non possano mai ritenersi comprese in modo forfettario all'interno della somma da corrispondersi con l'assegno periodico e/o come mantenimento diretto, rischiandosi contrariamente di recare pregiudizio al minore (Cass. civ., n. 9372, del 08 giugno 2012, nella parte in cui si afferma che: ''… la soluzione di includere le spese straordinarie, in via forfettaria, nell'ammontare dell'assegno posto a carico di uno dei genitori può rivelarsi in netto contrasto con il principio di proporzionalità sancito dall'articolo 155 cod. civ. E con quello dell'adeguatezza del mantenimento, poiché si introduce, nell'individuazione del contributo in favore della prole, una sorta di alea incompatibile con i principi che regolano la materia'').

Il carattere imprevedibile o eccezionale
La condizione appena sopra descritta permette di comprendere chiaramente la portata del prevalente e costante indirizzo giurisprudenziale che, al fine di fornire un criterio generale di differenziazione tra l’una e l’altra categoria, riconosce nelle ‘‘spese ordinarie’’ quelle destinate a soddisfare i bisogni quotidiani del minore, ed in quelle ‘‘straordinarie’’, invece, gli esborsi necessari a far fronte ad eventi imprevedibili o addirittura eccezionali, ad esigenze non rientranti nelle normali consuetudini di vita dei figli minori fino a quel momento, o comunque spese non quantificabili e determinabili in anticipo o di non lieve entità rispetto alla situazione economica dei genitori (Cass. Civ., n. 7672, del 19 luglio 1999; Cass. Civ., n. 6201, del 13 marzo 2009; Cass. Civ., n. 23411, del 04 novembre 2009; tra le pronunce dei giudici di merito v. a titolo esemplificativo Tribunale di Firenze, n. 3204, del 2005; Tribunale di Taranto, n. 321, del 22 febbraio 2010; Tribunale di Palermo, n. 4214, del 09 ottobre 2012).

Numerosi sono i provvedimenti dei giudici, tanto ordinanze con cui vengono disposti provvedimenti provvisori ed urgenti ex articolo 708 c.p.c., quanto sentenze definitive, in cui si definiscono ‘‘straordinarie’’ le spese: ‘‘non ricorrenti e, comunque, non prevedibili ex ante sempre che di apprezzabile importo (…), eccezion fatta per quelle di natura voluttuaria’’ (Tribunale di Catania, ordinanza del 11 ottobre 2010; il Tribunale di Catania già il 04 novembre 2008, definiva le spese straordinarie come: ‘‘quelle connotate dal requisito dell’imprevedibilità che non ne consente l’inserimento nell’assegno mensile, il quale copre le normali esigenze di vita quotidiana ma non gli esborsi (eventualmente anche periodici) dettati da esigenze specifiche non quantificabili ex ante proprio perché non rientranti nella consuetudine di vita avuto riguardo al livello sociale del nucleo familiare’’).

La determinazione della natura della spesa
Definizioni così ampie e generali fornite dalla giurisprudenza vengono accompagnate, sempre grazie all’analisi dei provvedimenti adottati nelle aule giudiziarie, da singole e specifiche voci di spesa riconducibile all’una o all’altra categoria appena esaminate.
Proprio quest’ultimo si presenta come il vero profilo problematico del tema in esame. Nella realtà concreta, infatti, si verifica di frequente che il genitore collocatario (o affidatario) sostenga delle spese di carattere straordinario e poi, rivolgendosi al genitore non collocatario per avere il rimborso della parte ad esso spettante, si veda rispondere che non si tratta di ‘‘spese straordinarie’’ ma al contrario assolutamente ‘‘ordinarie’’ e rientranti nell’assegno periodico predisposto.

La casistica giurisprudenziale in proposito è molto varia e ricca, anche se non sempre costante e concorde. Dalle pronunce più recenti, inoltre, si evidenziano sviluppi ed ulteriori precisazioni. Tra gli esborsi più frequentemente richiamati vi sono necessariamente quelli destinati a far fronte ad esigenze scolastiche e di salute.

Spese straordinarie, decisione comune
Le categorie di spesa appena citate permettono, altresì, di accennare ad un’ulteriore importante questione, ovvero quella concernente la differenza tra ‘‘spese straordinarie’’ e ‘‘scelte straordinarie’’, o meglio ‘‘di maggior interesse’’, che secondo quanto previsto all’articolo 155, comma 3, debbono essere assunte ‘‘di comune accordo’’ tra i genitori. In altre parole, quindi, ciò che spesso il genitore non collocatario (o non affidatario) contesta all’altro, innanzi ad una richiesta di rimborso, è il fatto che la spesa effettuata non sia stata decisa concordemente ma, al contrario, in modo unilaterale ed arbitrario, cosicché nulla a lui può essere addebitato.
In proposito è fondamentale specificare come tra ‘‘scelte straordinarie’’ e ‘‘spese straordinarie’’ non sussista un’assoluta ed automatica coincidenza. Non sempre, invero, un esborso straordinario è conseguenza di una ‘‘decisione di maggior interesse’’, più frequente è invece che una ‘‘scelta straordinaria’’, riguardante qualsiasi profilo della vita del minore (scolastico; ludico; sanitari; etc.), comporti una ‘‘spesa straordinaria’’ (Cass. Civ., n. 4459, del 05 maggio 1999; Cass. Civ., n. 26570, del 17 dicembre 2007; Cass. Civ., n. 2189, del 20 gennaio 2009; nella giurisprudenza di merito v. Tribunale di Roma, n. 19067, dell' 11 ottobre 2012).

Una recentissima pronuncia della Cassazione è esemplificativa in proposito nella parte in cui si legge che: ‘‘l’affidamento congiunto (…), presuppone un’attiva collaborazione degli stessi nell’elaborazione e la realizzazione del progetto educativo comune, imponendo pertanto, nell’accertamento della paternità delle singole decisioni, quanto meno di quelle più importanti, la verifica che le stesse sono state assunte sulla base di effettive consultazioni tra i genitori, e quindi con il consapevole contributo di ciascuno di essi. Ne discende che la parte la quale richieda il rimborso di spese sostenute per il minore, al fine dell’accoglimento della domanda, ha l’onere di fornire la prova di aver provveduto a consultare preventivamente l’ex coniuge, al fine di ottenere il consenso all’atto; e, in particolare, ad esempio, all’iscrizione della prole presso un istituto privato’’. Nel caso concreto, quindi, l’iscrizione della minore ad una scuola privata, come qualsiasi altra decisione di ‘‘maggiore interesse’’, si sarebbe dovuta assumere concordemente, l’assenza, invece, di qualsiasi consultazione del genitore non collocatario esclude che lo stesso possa essere solo richiamato per effettuare parte dell’esborso straordinario che ne consegue (Corte Cass., n. 10174, del 20 giugno 2012).

La tipizzazione delle spese
Dopo questa breve precisazione, è necessario individuare gli attuali indirizzi giurisprudenziali nella tipizzazione delle diverse tipologie di spese.

Spese scolastiche educative
- Per quanto riguarda quelle maggiormente attinenti al profilo scolastico/educativo del minore, dunque, i giudici sono pressoché concordi e fermi nel ricondurre tra le ‘‘spese ordinarie’’, anche se parametrate nell’arco di un anno e non di carattere giornaliero, quelle effettuate per l’acquisto di libri scolastici, di materiale di cancelleria, dell’abbigliamento per lo svolgimento dell’attività fisica a scuola, della quota di iscrizione alle gite scolastiche. Tutto ciò, ovviamente, basandosi sulla considerazione che la frequenza scolastica da parte del minore non è qualcosa di eccezionale ed imprevedibile ma, al contrario, di obbligatorio e fondamentale. Anche le spese mensili per la frequenza scolastica con annesso semi-convitto è stata considerata una ‘‘spesa ordinaria’’ in relazione al normale standard di vita seguito dal minore fino al momento della crisi familiare, con eventuale possibilità di aumentare l’assegno di mantenimento precedentemente disposto per far fronte a tale esigenza (Tribunale per i minorenni di Bari, decreto del 06 ottobre 2010). Per quanto riguarda, invece, i viaggi studio all’estero (Cass. Civ., n. 19607, del 2011) e le ripetizioni scolastiche o gli sport (recentissima Tribunale di Roma, n. 147, del 2013) la giurisprudenza li riconduce più frequentemente alla categoria delle ‘‘spese straordinarie’’.

Formazione universitaria
- Le spese per la formazione universitaria, invece, vengono qualificate dalla giurisprudenza quali ‘‘spese ordinarie’’, tali da giustificare una richiesta di modifica in aumento dell’assegno periodico non trattandosi, infatti, di spese di carattere saltuario e eccezionale o comunque imprevedibile ma, al contrario, assolutamente normali e durevoli nel tempo (Cass. Civ., n. 8153, del 2006).

Dopo la fine della convivenza, i maltrattamenti in famiglia diventano stalking

Dopo la fine della convivenza, i maltrattamenti in famiglia diventano stalking

Per la Corte d’Appello di Palermo la cessazione della convivenza traccia un discrimen tra le due fattispecie di reato
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Una volta finita la convivenza, se le condotte persecutorie poste in essere nei confronti dell'ex partner proseguono non può più parlarsi di maltrattamenti in famiglia ma di stalking. Lo ha affermato la quarta sezione penale della Corte d'Appello di Palermo, nella recente sentenza n. 1711/2015 (qui sotto allegata) accogliendo il ricorso dell'imputato e ricalcolando la pena, al ribasso, essendo lo stalking un delitto meno grave rispetto a quello dei maltrattamenti.
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Nella vicenda, l'uomo si era macchiato più volte di maltrattamenti, sia durante che dopo la convivenza, nei confronti dell'ex compagna, dalla quale aveva anche avuto dei figli, le cui testimonianze erano state determinanti per la condanna in primo grado. Dall'istruttoria era infatti emerso che nel corso della vita in comune l'uomo aveva più volte offeso e picchiato la donna e in seguito all'allontanamento dall'abitazione familiare, l'aveva presa di mira, appostandosi sotto casa, minacciandola per telefono, danneggiando i suoi beni e costringendola a farsi accompagnare dal figlio quando andava al lavoro.
A detta della corte d'appello, sbaglia il tribunale a ritenere assorbita l'imputazione del reato di cui all'art. 612-bis c.p. in quello più grave di maltrattamenti in famiglia, sull'assunto (basato su consolidato orientamento giurisprudenziale) che la cessazione del rapporto di convivenza "non possa considerarsi idonea a tracciare un discrimen tra l'area di operatività della fattispecie astratta di cui all'art. 572 c.p. e quella dell'ipotesi criminosa di cui all'art. 612-bis c.p.", ritenendo che la fine della relazione non influisca sulla sussistenza del reato di maltrattamenti.
In conformità alla giurisprudenza della Cassazione (cfr. Cass. n. 19545/2013), ha affermato infatti il giudice d'appello "deve ritenersi configurabile l'ipotesi aggravata del delitto di atti persecutori, in presenza di comportamenti che, sorti in seno alla comunità familiare (o a questa assimilata) ovvero determinati dalla sua esistenza, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare o affettivo o, comunque, dalla sua attualità temporale" sicché la diversità delle condotte, poste in essere in un diverso contesto temporale, successivo alla cessazione della convivenza, costituiscono "ulteriori profili di esplicazione di un medesimo atteggiarsi della volontà dell'imputato, che ha proseguito nel comportamento vessatorio nei confronti della convivente, pur dopo la cessazione della convivenza", che configurano non già il delitto di maltrattamenti bensì quello di atti persecutori "sia pure nella forma aggravata di cui al secondo comma, da ritenersi commesso in esecuzione di un medesimo disegno criminoso rispetto agli altri delitti oggetto di contestazione".
Nella convivenza more uxorio, infatti, a differenza del matrimonio, in cui tra i coniugi, separati di fatto, "continuano a persistere i doveri di assistenza e di rispetto tipici della convivenza familiare", ha concluso la corte, la cessazione della convivenza stessa "determina la fine del nucleo familiare costituito dalla coppia".

DIVORZIO: ADDIO AL MANTENIMENTO



Divorzio: addio mantenimento se c’è nuova convivenza
Separazione o divorzio: l’avvio di una nuova relazione, tipica di una coppia di fatto, fa venir meno l’obbligo del versamento del mantenimento; necessario prima avviare il procedimento di revisione delle condizioni di separazione o divorzio.
 Non si ha diritto ad ottenere, dall’ex coniuge, l’assegno di mantenimento dopo la separazione o il divorzio se il richiedente ha deciso di avviare una convivenza con un nuovo partner. Non importa se le condizioni economiche tra i due soggetti, un tempo uniti dal vincolo del matrimonio, siano nettamente sproporzionate e contrastanti: sebbene la differenza dei redditi giustifica, di norma, la concessione dell’assegno di mantenimento (sempre che il richiedente non abbia subito il cosiddetto addebito), invece nel caso di avvio di una nuova relazione stabile e continuativa, sotto lo stesso tetto, si perde il diritto all’assegno mensile.
È quanto chiarito dalla Cassazione con una ordinanza di questa mattina [1].
Voltare subito pagina ha sicuramente dei pro, ma anche dei contro: secondo, infatti, un orientamento piuttosto recente varato dalla Suprema Corte, ed ormai confermato in modo costante, chi inizia una nuova relazione, basata sulla convivenza “more uxorio” (tipica, cioè, delle cosiddette “coppie di fatto”, unite in tutto e per tutto, ma non sposate) perde ogni diritto economico al mantenimento nei confronti dell’ex. Sia che si tratti di assegno di mantenimento (conseguente alla separazione), sia che si tratti di assegno divorzile (conseguente, invece, al divorzio), il precedente coniuge, obbligato in precedenza al versamento di tale importo, non può essere certamente tenuto a mantenere anche la nuova famiglia dell’ex. Così, chi si assume il “rischio” di una nuova relazione dovrà, in questa, trovare le risorse per mantenersi, senza poter gravare su altre persone appartenenti a un passato ormai reciso.
Che fare, allora? Chi versa l’assegno di mantenimento non dovrà far altro che recarsi dal giudice (rigorosamente) con un avvocato e chiedere la revisione delle condizioni di separazione o divorzio, con cancellazione dei precedenti obblighi di mantenimento. Se – per ipotesi – dovesse esservi il consenso anche dell’altro soggetto, questa procedura potrebbe essere effettuata, senza costi, in Comune (così come, ormai, ci si separa o si divorzia) o presso l’avvocato (con la cosiddetta negoziazione assistita). È però importante che non si proceda, in autonomia – senza cioè una previa autorizzazione del giudice – a interrompere l’erogazione del mantenimento, poiché altrimenti si potrebbero rischiare serie conseguenze giudiziali.
 Se il nuovo compagno è disoccupato?L’assegno di mantenimento cessa anche se il nuovo partner è disoccupato e non percepisce alcun reddito. È proprio il fatto di aver avviato una convivenza o, comunque, un rapporto stabile e basato sui presupposti di una tipica famiglia di fatto a far venir meno il dovere del mantenimento. Tale dato è decisivo. Esso, spiegano i Giudici, rende secondaria la “sperequazione dei redditi” tra gli ex coniugi. È completamente irrilevante, quindi, l’inadeguatezza dei mezzi a disposizione del “mantenuto”, confrontati col tenore di vita avuto in costanza di matrimonio.
La sentenza
Corte di cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza 23 settembre – 16 novembre 2015, n. 23411
Presidente Ragonesi – Relatore Bisogni
Fatto e diritto
Rilevato che in data 15 giugno 2015 è stata depositata relazione ex art. 380 bis c.p.c. che qui si riporta:
Rilevato che:
1. Con sentenza n. 3030/2000 il Tribunale di Firenze ha dichiarato la separazione tra i coniugi M.M. e A. R. e ha inoltre disposto l’affidamento della figlia minore F. alla madre, l’assegnazione della casa coniugale alla M. e l’obbligo a carico del R. di corrispondere la cifra di £ 350.000 al mese quale contributo per il mantenimento della figlia. Con sentenza n. 3118/2006 i1 Tribunale di Firenze ha dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio celebrato il 13.9.1987 tra le parti e rigettato le domande del R. volte ad ottenere l’affidamento della figlia e l’obbligo di corrispondere un assegno divorzile a carico della moglie. in relazione a quest’ultima domanda, il Tribunale ha motivato la reiezione basandosi sulla convivenza del R. con la nuova compagna, con cui egli divide le spese e contribuisce al pagamento del mutuo della casa in cui abitano.
2. A. R., che nega di aver instaurato una convivenza more uxorio, ha proposto appello avverso la sentenza chiedendo che la M. gli corrisponda un assegno divorzile di € 750,00 in ragione della sproporzione reddituale esistente a suo sfavore. Con sentenza n. 230/2008 la Corte d’Appello di Firenze ha rigettato la domanda rilevando che l’inadeguatezza dei redditi del coniuge a conservare un tenore di vita pari a quello tenuto in costanza di matrimonio viene in evidenza solo in presenza di situazioni di macroscopica difficoltà economica, che si traducono in difficoltà a un’esistenza dignitosa.
3. R. ha proposto ricorso per cassazione accolto con sentenza n. 18547/2013 che ha cassato con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Firenze. La Corte di legittimità ha ribadito che il diritto all’assegno divorzile sussiste nel caso in cui i mezzi del coniuge richiedente siano tali da non poter garantire un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio, non essendo invece necessario accertare lo stato di bisogno del richiedente.
4. Riassunta la causa, la Corte d’Appello di Firenze con sentenza n. 211/2014 ha rigettato la richiesta di assegno divorzile e la domanda di restituzione delle spese legali proposte dal R.. Il giudice del rinvio ha ritenuto che la convivenza stabile del ricorrente con altra donna è risultato un fatto pacifico in tutti i gradi del giudizio e il Tribunale ha correttamente respinto la richiesta di assegno divorzile sulla base di questo rilievo e non delle motivazioni erronee sanzionate dal giudice di legittimità. Inoltre la Corte di appello fiorentina nel respingere la domanda ha richiamato la giurisprudenza di legittimità secondo cui il nuovo matrimonio del coniuge divorziato o la convivenza stabile di fatto determina la sospensione dell’obbligo di corrispondere l’assegno divorzile, anche laddove ne sussistano i presupposti patrimoniali (Cass. sez. 1, n. 17195 del 2011 e n. 3923 del 2012).
5. R. ricorre per cassazione deducendo: a) omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, consistente nel mancato accertamento dell’asserita convivenza more uxorio del ricorrente; b) violazione o falsa applicazione dell’art. 5, c. 10 della 1. n. 898/1970 in relazione all’esclusione del diritto all’assegno divorzile a motivo della convivenza di fatto del ricorrente con un’altra donna; c) violazione o falsa applicazione dell’art. 5, c. 6 della 1. n. 898/1970 in relazione all’accertamento del diritto all’assegno divorzile e quindi alla mancata verifica dell’inadeguatezza dei mezzi del coniuge richiedente, raffrontati a un tenore di vita analogo a quello avuto in costanza di matrimonio.
Ritenuto che:
6. I1 ricorso è inammissibile in quanto verte sulla valutazione delle prove operata dalla Corte distrettuale fiorentina relativamente alla stabile convivenza del ricorrente con Carmela Cona. Valutazioni che peraltro il ricorrente contesta con deduzioni prive di autosufficienza e del tutto contraddittorie rispetto al dato ritenuto inequivocabile dai giudici di merito del pagamento in comune con la Cona di un mutuo, acceso nel 2003 per l’acquisto di una casa in comunione da destinare alla soluzione dei comuni problemi abitativi, insorti per il R. dopo la separazione dalla M.. Quanto alla sperequazione dei redditi si tratta di un dato recessivo a fronte della accertata convivenza stabile e duratura del ricorrenti con la sua attuale compagna come lo stesso ricorrente riconosce discutendo il secondo motivo di ricorso.
7. Sussistono i presupposti per la discussione della controversia in camera di consiglio e se la Corte
condividerà questa relazione per la dichiarazione di inammissibilità del ricorso.
La Corte condivide tale relazione e pertanto ritiene che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile senza alcuna statuizione sulle spese.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla sulle spese. Dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 del decreto legislativo n. 196/2003.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, dello stesso articolo 13.
[1] Cass. ord. n. 23411/2015 del 16.11.2015.


SE IL MARITO TRADISCE



Se il marito tradisce non deve pagare il mantenimento né perde la casa
L’addebito della separazione non è correlata all’obbligo di mantenimento e all’assegnazione della casa coniugale.
 Tradimenti non necessariamente condannati all’obbligo di pagamento del mantenimento. Spesso si confonde il concetto di addebito della separazione con quello relativo all’obbligo di mantenimento e all’assegnazione della casa familiare. Si tratta, in verità, di tre istituti diversi con presupposti non necessariamente coincidenti. Cosicché si può ben verificare che il coniuge a cui sia addebitata la colpa della rottura del matrimonio (per esempio a seguito di infedeltà) non sia né tenuto a versare il mantenimento all’ex, né perda la casa di proprietà. Vediamo meglio di chiarire le idee.
 Cos’è l’addebito e quali sono le conseguenze
L’addebito – ossia la dichiarazione di responsabilità per la rottura del matrimonio – scatta nei confronti del coniuge il cui comportamento colpevole, in violazione dei doveri coniugali, abbia determinato l’intolleranza della convivenza. Di certo, quindi, l’infedeltà è causa di addebito, sempre che essa sia l’effettiva ragione della “rottura” tra i coniugi. Diversamente, in un contesto in cui il rapporto si sia già sgretolato per altre ragioni e l’infedeltà sia solo una normale conseguenza, essa non è considerata causa di addebito. Un’altra causa di addebito potrebbe essere un comportamento vessatorio e violento, l’abbandono della casa familiare, la violazione del dovere di assistenza morale e materiale, ecc.
 Contrariamente, però, a quanto potrebbe credersi, non è vero che il coniuge a cui sia imputato l’addebito debba necessariamente pagare il mantenimento. Infatti le conseguenze dell’addebito sono altre, ossia:
– chi subisce l’addebito non può pretendere il mantenimento da parte dell’altro coniuge. Potrebbe tutt’al più chiedere, in caso di effettivo bisogno, gli alimenti: un contributo corrispondente all’importo minimo indispensabile per garantire la sopravvivenza (l’ammontare è inferiore, quindi, all’assegno di mantenimento che, invece, per come a breve si vedrà, mira a garantire lo stesso tenore di vita di cui si godeva durante il matrimonio);
– chi subisce l’addebito perde i diritti di successione verso l’altro coniuge: per cui se decede prima il coniuge non responsabile della separazione, quello che ha ricevuto l’addebito non può accampare pretese come erede. Viceversa, se muore prima il coniuge con l’addebito, l’altro gli succede regolarmente (a meno che non sia intervenuto il divorzio);
 – il separato con addebito perde il diritto alla pensione di reversibilità dell’ex, salvo che il giudice gli abbia riconosciuto il diritto agli alimenti;
– il coniuge con addebito paga le spese processualidella causa di separazione;
 – il coniuge con addebito potrebbe (ma è piuttosto difficile che accada) essere condannato, al termine della causa di separazione, al risarcimento del danno nei confronti dell’altro coniuge. Ciò avviene solo in casi straordinari che, nell’ipotesi di infedeltà, consistono in quelle ipotesi in cui il tradimento sia stato consumato in modo particolarmente lesivo della dignità dell’ex (si pensi a un tradimento ripetuto e continuo, noto a tutta la collettività o, per esempio, con la migliore amica della propria ex moglie).
 Come visto, tra tutte le conseguenze della dichiarazione di addebito, per come appena elencate, non vi è l’obbligo al pagamento dell’assegno di mantenimento. Dunque, non è automatico che il coniuge infedele, cui sia stata addebitata la separazione, debba versare l’assegno mensile di mantenimento all’ex. Il che non è detto che accada, ma altri sono i presupposti, per come vedremo a brevissimo.
 A che serve l’assegno di mantenimento
La funzione dell’assegno di mantenimento non è quella di sanzionare il coniuge colpevole della rottura del matrimonio, ma solo quella di garantire al coniuge economicamente più debole lo stesso tenore di vita di cui godeva durante il matrimonio. Dunque, il mantenimento ha solo una funzione assistenziale.
 La regola è dunque la seguente:
 – chi tradisce versa il mantenimento solo se l’altro coniuge ha un reddito inferiore, che non gli consente di mantenere il tenore di vita che aveva durante il matrimonio; nelle altre ipotesi non è tenuto ad alcun mantenimento;
– chi tradisce non può mai chiedere il mantenimentoper sé; a tutto voler concedere potrebbe chiedere gli alimenti (che sono ben più misera cosa) se solo dimostra di versare in condizioni di povertà estrema.
Se, dunque, è vero che chi subisce l’addebito non può pretendere il mantenimento nonostante sia più povero dell’altro, non è detto che chi tradisce debba sempre pagare il mantenimento all’ex se quest’ultimo ha lo stesso reddito del coniuge fedifrago o, addirittura, uno superiore.
Si pensi, per esempio, all’uomo che sposa una donna particolarmente benestante, che con il proprio patrimonio contribuisce maggiormente al ménage della famiglia. In tal caso, se il marito tradisce la moglie non le dovrà versare alcun mantenimento. Tuttavia, il marito, in quanto colpevole, non potrà a sua volta chiedere il mantenimento.
 Che funzione ha l’assegnazione della casa coniugale
Così come chi tradisce non deve necessariamente versare il mantenimento, non è neanche detto che egli debba lasciare la casa coniugale all’ex. Anche in questo caso, la funzione dell’assegnazione della casa non ha natura punitiva, ma serve solo a garantire ai figli di continuare a vivere, nonostante la separazione dei genitori, nello stesso habitat domestico.
Di conseguenza:
 – se la coppia non ha figli, chi tradisce continua a vivere nella propria casa di proprietà e la stessa non viene assegnata all’altro coniuge;
 – se i figli sono ormai autonomi economicamente o non vivono più con i genitori, la casa rimane al legittimo proprietario (che, appunto, potrebbe essere il coniuge traditore);
 – se il genitore a cui è stata assegnata la casa familiare e presso cui sono stati collocati i figli decide di andare a vivere altrove, la casa torna nella disponibilità dell’altro coniuge.
 E l’affidamento dei figli?
Anche le regole sull’affidamento dei figli non subiscono influenze dall’eventuale accertamento dell’infedeltà. Il padre infedele – ha più volte ripetuto la giurisprudenza – può essere un buon padre e, quindi, ha diritto a vedere e frequentare i figli secondo i principi dell’affido condiviso (che in questo caso non hanno ragione di essere derogati). Anzi, la madre che per ripicca non gli consente di vedere i minori rischia di perdere essa stessa l’affidamento della prole.