Dopo la fine della convivenza, i maltrattamenti in famiglia diventano stalking
Per la Corte d’Appello di Palermo la cessazione della convivenza traccia un discrimen tra le due fattispecie di reato
Una volta finita la convivenza, se le condotte persecutorie poste in essere nei confronti dell'ex partner proseguono non può più parlarsi di maltrattamenti in famiglia ma di stalking. Lo ha affermato la quarta sezione penale della Corte d'Appello di Palermo, nella recente sentenza n. 1711/2015 (qui sotto allegata) accogliendo il ricorso dell'imputato e ricalcolando la pena, al ribasso, essendo lo stalking un delitto meno grave rispetto a quello dei maltrattamenti.
Nella vicenda, l'uomo si era macchiato più volte di maltrattamenti, sia durante che dopo la convivenza, nei confronti dell'ex compagna, dalla quale aveva anche avuto dei figli, le cui testimonianze erano state determinanti per la condanna in primo grado. Dall'istruttoria era infatti emerso che nel corso della vita in comune l'uomo aveva più volte offeso e picchiato la donna e in seguito all'allontanamento dall'abitazione familiare, l'aveva presa di mira, appostandosi sotto casa, minacciandola per telefono, danneggiando i suoi beni e costringendola a farsi accompagnare dal figlio quando andava al lavoro.
A detta della corte d'appello, sbaglia il tribunale a ritenere assorbita l'imputazione del reato di cui all'art. 612-bis c.p. in quello più grave di maltrattamenti in famiglia, sull'assunto (basato su consolidato orientamento giurisprudenziale) che la cessazione del rapporto di convivenza "non possa considerarsi idonea a tracciare un discrimen tra l'area di operatività della fattispecie astratta di cui all'art. 572 c.p. e quella dell'ipotesi criminosa di cui all'art. 612-bis c.p.", ritenendo che la fine della relazione non influisca sulla sussistenza del reato di maltrattamenti.
In conformità alla giurisprudenza della Cassazione (cfr. Cass. n. 19545/2013), ha affermato infatti il giudice d'appello "deve ritenersi configurabile l'ipotesi aggravata del delitto di atti persecutori, in presenza di comportamenti che, sorti in seno alla comunità familiare (o a questa assimilata) ovvero determinati dalla sua esistenza, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare o affettivo o, comunque, dalla sua attualità temporale" sicché la diversità delle condotte, poste in essere in un diverso contesto temporale, successivo alla cessazione della convivenza, costituiscono "ulteriori profili di esplicazione di un medesimo atteggiarsi della volontà dell'imputato, che ha proseguito nel comportamento vessatorio nei confronti della convivente, pur dopo la cessazione della convivenza", che configurano non già il delitto di maltrattamenti bensì quello di atti persecutori "sia pure nella forma aggravata di cui al secondo comma, da ritenersi commesso in esecuzione di un medesimo disegno criminoso rispetto agli altri delitti oggetto di contestazione".
Nella convivenza more uxorio, infatti, a differenza del matrimonio, in cui tra i coniugi, separati di fatto, "continuano a persistere i doveri di assistenza e di rispetto tipici della convivenza familiare", ha concluso la corte, la cessazione della convivenza stessa "determina la fine del nucleo familiare costituito dalla coppia".
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A detta della corte d'appello, sbaglia il tribunale a ritenere assorbita l'imputazione del reato di cui all'art. 612-bis c.p. in quello più grave di maltrattamenti in famiglia, sull'assunto (basato su consolidato orientamento giurisprudenziale) che la cessazione del rapporto di convivenza "non possa considerarsi idonea a tracciare un discrimen tra l'area di operatività della fattispecie astratta di cui all'art. 572 c.p. e quella dell'ipotesi criminosa di cui all'art. 612-bis c.p.", ritenendo che la fine della relazione non influisca sulla sussistenza del reato di maltrattamenti.
In conformità alla giurisprudenza della Cassazione (cfr. Cass. n. 19545/2013), ha affermato infatti il giudice d'appello "deve ritenersi configurabile l'ipotesi aggravata del delitto di atti persecutori, in presenza di comportamenti che, sorti in seno alla comunità familiare (o a questa assimilata) ovvero determinati dalla sua esistenza, esulino dalla fattispecie dei maltrattamenti per la sopravvenuta cessazione del vincolo familiare o affettivo o, comunque, dalla sua attualità temporale" sicché la diversità delle condotte, poste in essere in un diverso contesto temporale, successivo alla cessazione della convivenza, costituiscono "ulteriori profili di esplicazione di un medesimo atteggiarsi della volontà dell'imputato, che ha proseguito nel comportamento vessatorio nei confronti della convivente, pur dopo la cessazione della convivenza", che configurano non già il delitto di maltrattamenti bensì quello di atti persecutori "sia pure nella forma aggravata di cui al secondo comma, da ritenersi commesso in esecuzione di un medesimo disegno criminoso rispetto agli altri delitti oggetto di contestazione".
Nella convivenza more uxorio, infatti, a differenza del matrimonio, in cui tra i coniugi, separati di fatto, "continuano a persistere i doveri di assistenza e di rispetto tipici della convivenza familiare", ha concluso la corte, la cessazione della convivenza stessa "determina la fine del nucleo familiare costituito dalla coppia".