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L'Avv. VANIA SCIARRA è avvocato matrimonialista specializzato nel diritto di famiglia, in particolare nella soluzione stragiudiziale e giudiziale delle controversie in ambito matrimoniale, SEPARAZIONI e DIVORZI, e nell'ambito di CONVIVENZA more uxorio.
E' possibile ricevere assistenza legale - oggi grazie anche all'introduzione del PCT (Processo Civile Telematico) - SULL'INTERO TERRITORIO NAZIONALE, ed in tempi brevissimi, grazie agli interventi legislativi di modifica apportati in materia con il D.L. 12 settembre 2014 n. 132 (G.U. n. 212 del 12.09.2014)(Procedura di negoziazione assistita da un avvocato - Divorzio breve).




SEPARAZIONE E DIVORZIO - PAS: non è una patologia ma un comportamento illecito



SEPARAZIONE E DIVORZIO - PAS: non è una patologia ma un comportamento illecito
Per il Tribunale di Milano l'alienante che agisce in giudizio infondatamente può essere condannato ex art. 96, co. 3, c.p.c.
L'alienazione parentale può essere considerata una patologia? In generale le sempre più numerose cause che trattano questa tematica in materia di rapporti genitori/figli rendono tale argomento molto dibattuto e fonte di contrasti interpretativi, ma la nona sezione civile del Tribunale di Milano, con decreto del 9-11 marzo 2017 (qui sotto allegato), ha mostrato di non avere alcun dubbio: niente patologia, l'alienazione parentale è un comportamento illecito che, peraltro, può anche giustificare la condanna del genitore alienante ai sensi dell'articolo 96, comma 3, del codice di procedura civile.
Nel caso oggetto del recente decreto, in particolare, ad aver subito tale condanna è stata una donna che aveva citato in giudizio l'ex, ai sensi dell'articolo 709-bis c.p.c., per questioni relative ai figli, ma era risultata poi autrice di comportamenti alienanti. Per il tribunale di Milano "il termine alienazione genitoriale – se non altro per la prevalente e più accreditata dottrina scientifica e per la migliore giurisprudenza – non integra una nozione di patologia clinicamente accertabile, bensì un insieme di comportamenti posti in essere dal genitore collocatario per emarginare e neutralizzare l'altra figura genitoriale; condotte chenon abbisognano dell'elemento psicologico del dolo essendo sufficiente la colpa o la radice anche patologica delle condotte medesime".
Gli atteggiamenti tenuti dalla madre, peraltro, sono stati di una gravità tale da costringere il Tribunale a disporre l'affidamento del minore al Comune, in forza delle previsioni dell'articolo 333 del codice civile (che regolamenta la "condotta del genitore pregiudizievole ai figli"): la donna, infatti, con i suoi comportamenti non aveva cagionato solo un forte stress nel padre ma anche una situazione di pericolosa vulnerabilità della figlia, "che si trova sull'orlo di una declinazione patologica della propria condizione di bambina travolta dal conflitto".



Separazione: scatta l'addebito per il padre “fedifrago”, se la figlia testimonia sul suo tradimento



Separazione: scatta l'addebito per il padre “fedifrago”, se la figlia testimonia sul suo tradimento
La deposizione della figlia, non smentita dal padre, costituisce prova di una confessione stragiudiziale che dimostra l'inosservanza dell'obbligo di fedeltà
Sì all'addebito per il padre "fedifrago" incastrato dalla figlia che per caso ha scoperto gli sms inviati dall'amante sul telefonino del genitore e ha assistito alla sua “confessione”, rendendo apposita deposizione in giudizio.
Lo ha stabilito il Tribunale di Trento con la recente sentenza n. 249/2015 (qui sotto allegata), pronunciandosi sulla separazione giudiziale di una coppia e concludendo per l'addebito al marito e l'affido congiunto della figlia minorenne.
La vicenda aveva inizio con la domanda di addebito da parte della moglie per via della relazione extraconiugale intrattenuta dal marito e provata, tra le altre cose, anche dalla testimonianza resa dalla figlia maggiorenne, la quale, non solo aveva avuto modo di leggere alcuni sms sul telefono del padre (del tipo “sei la luce dei miei occhi”, “oggi piove si vede che non ci sei”, ecc.) inviati dall'amante, ma aveva anche assistito ad una discussione del genitore con la madre, durante la quale lo stesso ammetteva la relazione sentimentale promettendo che comunque era finita, per poi prendere le sue cose e andare via di casa.
Per il tribunale, ciò basta ad addebitare la separazione al convenuto, ritenendo superfluo l'esame di ogni altra deduzione sul punto.
La deposizione della figlia, infatti “non smentita da elementi di segno contrario, costituisce, di fatto, prova di una confessione stragiudiziale del convenuto, in virtù della quale può ritenersi dimostrato che in costanza di convivenza con la moglie lo stesso ebbe effettivamente a intrattenere una relazione extraconiugale”.
Ciò detto, ha quindi affermato il tribunale richiamando il costante insegnamento giurisprudenziale in tema di separazione tra coniugi (cfr Cass. 2059/2012), “l'inosservanza dell'obbligo di fedeltà coniugale rappresenta una violazione particolarmente grave, la quale, determinando normalmente l'intollerabilità della prosecuzione della convivenza, deve ritenersi, di regola, circostanza sufficiente a giustificare l'addebito della separazione al coniuge responsabile” il che significa che laddove “la ragione dell'addebito sia costituita dall'inosservanza dell'obbligo di fedeltà coniugale, questo comportamento, se provato, fa presumere che abbia reso la convivenza intollerabile, sicché, da un lato, la parte che lo ha allegato ha interamente assolto l'onere della prova per la parte su di lei gravante, e dall'altro la sentenza che su tale premessa fonda la pronuncia di addebito è sufficientemente motivata ove non risulti adeguatamente provata la mancanza di un rapporto di causa ed effetto tra l'accertata infedeltà e l'intollerabilità della convivenza”.
E tale prova è mancata, secondo il giudice trentino, nella tesi sostenuta dal marito che affermava che il rapporto matrimoniale fosse già definitivamente compromesso all'inizio della sua relazione, per cui l'infedeltà si era verificata nell'ambito di una convivenza divenuta intollerabile o meramente formale, in quanto non forniti adeguati elementi di prova tali da escludere la rilevanza causale alla violazione dell'obbligo di fedeltà.
Vittoria per la moglie, dunque, ma non su tutti i fronti. Perché quanto all'assegno, dai controlli effettuati non risultava la stessa avesse un reddito così basso da spettarle il mantenimento, il quale veniva, invece, disposto nei confronti delle figlie, sia minorenne (affidata congiuntamente) che maggiorenne senza redditi sufficienti.



SEPARAZIONE: Il coniuge lascia la casa se la trascrizione dell’assegnazione è successiva alla compravendita



SEPARAZIONE: Il coniuge lascia la casa se la trascrizione dell’assegnazione è successiva alla compravendita
Respinto il ricorso di una mamma alla quale il giudice della separazione aveva concesso di abitare insieme al figlio nell'appartamento della suocera
Deve lasciare la casa familiare il coniuge quando la trascrizione della compravendita è precedente alla trascrizione dell’assegnazione dell’immobile.
È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con l’ordinanza n. 7007 del 17 marzo 2017, ha respinto il ricorso di una donna alla quale il giudice della separazione aveva concesso il godimento dell’abitazione insieme al figlio dell’appartamento della suocera.
In particolare per gli Ermellini bene ha fatto la Corte d'appello motivando adeguatamente la decisione, attribuendo rilevanza, per un verso, all'ordine delle trascrizioni del provvedimento di assegnazione della casa coniugale e dell'atto di compravendita di quest'ultima (tale che, ai sensi degli artt. 155 quater e 2644 cod. civ., il primo provvedimento, in quanto trascritto dopo l'atto di compravendita, è risultato non opponibile al terzo acquirente ai sensi del detto art. 155 quater) e, per altro verso, al rapporto di comodato della casa coniugale esistente prima della separazione tra i coniugi. Piazza Cavour in proposito si dice favorevole al coniuge assegnatario della casa coniugale, già comodatario, anche nei rapporti con i terzi, in deroga alla regola generale dell'inopponibilità del comodato ai terzi. Infatti, «il contratto di comodato di immobile, stipulato dall'alienante di esso in epoca anteriore al suo trasferimento, non è opponibile all'acquirente del bene, non estendendosi a rapporti diversi dalla locazione le disposizioni, di natura eccezionale, di cui all'art. 1599 c.c., sicché l'acquirente non può risentire alcun pregiudizio dall'esistenza del rapporto di comodato, atteso il suo diritto di far cessare in qualsiasi momento, "ad libitum", il godimento del bene da parte del comodatario e di ottenere la piena disponibilità della cosa».

Che valore ha l'apporto casalingo del convivente lavoratore defunto? Si può presumere?



Che valore ha l'apporto casalingo del convivente lavoratore defunto? Si può presumere?
Ai fini della liquidazione del danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico svolto da un familiare deceduto per colpa altrui, la prova che la vittima attendesse a tale attività può essere ricavata in via presuntiva ex art. 2727 c.c. dalla semplice circostanza che non avesse un lavoro, mentre spetta a chi nega l'esistenza del danno dimostrare che la vittima, benché casalinga, non si occupasse del lavoro domestico.
Corte di Cassazione, sez. III Civile, sentenza 18 novembre 2016 - 14 marzo 2017, n. 6477
Presidente Chiarini – Relatore Rubino

Fatti di causa

A seguito di un sinistro stradale tra la vettura sulla quale era trasportata e la vettura condotta da C.A. (che risultava avere un tasso alcolemico superiore al consentito al momento del fatto) e di proprietà di C.S. , perdeva la vita B.C.S. , incinta alla 30^ settimana. Di lì a poche ore moriva anche la piccola Br. che, fatta nascere con parto cesareo d’urgenza, sopravviveva poche ore alla madre. L’attuale ricorrente, L.R. , convivente della defunta, veniva risarcito dalla compagnia di assicurazioni del veicolo investitore nella misura di Euro 200.000,00.
Ritenuto insufficiente il risarcimento conseguito, introduceva il giudizio di merito e, all’esito del primo grado i C. venivano condannati al pagamento di Euro 380.000,00 in suo favore (di cui 230.000,00 per danno non patrimoniale conseguente alla morte della compagna e 150.000,00 per danno non patrimoniale conseguente alla morte della figlia appena nata), e la compagnia di assicurazioni alla manleva.
La Corte d’Appello di Venezia, con la sentenza qui impugnata, rigettava l’appello del L. , volto al conseguimento di un maggior importo per il risarcimento del danno non patrimoniale ed al riconoscimento del danno patrimoniale da lucro cessante conseguente alla perdita del contributo lavorativo in precedenza prestato dalla compagna in favore del menage familiare.
L.R. propone sei motivi di ricorso per cassazione avverso la sentenza n. 177/2013 della Corte d’Appello di Venezia, depositata il 19.3.2013.
Resiste con controricorso C.S. , proprietario del veicolo investitore.
Resiste con separato controricorso la Cattolica Ass.ni s.p.a..
Il ricorrente ha depositato memoria, il C. una breve nota con allegata nota spese.

Ragioni della decisione

Con il primo motivo il ricorrente deduce la mera apparenza della motivazione: assume che sia in primo grado che poi in appello i giudici, pur dando atto dell’enormità della perdita subita dal ricorrente, che in un unico contesto e a causa della condotta irresponsabile di un conducente ubriaco, aveva perso la convivente, la figlia e ogni progetto di vita familiare futura, avevano poi quantificato i danni in un importo, desunto dalle tabelle milanesi, che da un lato frazionava l’unico evento produttore di innumerevoli pregiudizi non patrimoniali concettualmente inscindibili in due danni conseguenza distinti, la perdita del rapporto con la convivente, e la perdita della figlia, quantificando il primo in riferimento ai valori medi e il secondo ai valori minimi in quanto, pur in considerazione della enormità della perdita, essa veniva commisurata al minimo tabellare (quanto alla figlia) in ragione del fatto che il rapporto con la bimba, morta poche ore dopo la nascita, non si fosse ancora consolidato.
In appello l’attuale ricorrente richiamava una sentenza sempre del Tribunale di Milano in cui era stato preso in considerazione, in caso di doppia perdita, l’effetto geometrico di essa, e quindi era reputato che una semplice sommatoria di quanto tabellarmente previsto per i due danni non fosse sufficiente a risarcire l’intero danno.
Il ricorrente evidenzia l’incongruità, fino ai confini dell’apparenza, della motivazione della corte veneziana che da un lato dà conto della gravità della perdita ma al tempo stesso avalla il criterio quantitativo seguito dal giudice di primo grado, pari al minimo tabellare, e sottolinea che essa contiene una serie di omissioni che rendono impossibile il controllo delle ragioni poste alla base della decisione.
Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 2059 e 1226 c.c., consistente nella sottostima del danno effettivamente conseguito, in sostanziale mancata applicazione delle tabelle di Milano derivante dalla violazione della sua logica interna, come resa cogente dalle sue note esplicative.
Con il terzo motivo, il ricorrente torna a denunciare la presenza di un vizio di motivazione in ordine alla insufficiente motivazione sulla adeguata personalizzazione del danno.
Con il quarto motivo, nuovamente denuncia la violazione degli artt. 1226 e 2059 c.c., nella parte in cui la sentenza ha considerato separatamente le due morti, attribuendo il minimo per la morte della piccola Br. in conseguenza del non aver ancora potuto il padre instaurare con lei una significativa relazione ed incorrendo nella violazione del principio della liquidazione unitaria del danno.
Con il quinto motivo il L. denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c per non aver la corte di prossimità provveduto su una serie di domande volte ad ottenere un integrale risarcimento del danno.
I primi cinque motivi sono tutti relativi alla insufficiente liquidazione del danno non patrimoniale subito dal L. e conseguente alla perdita, a seguito di un unico incidente, della sua compagna, della figlioletta prematuramente nata e non sopravvissuta al parto, e alla conseguente impossibilità di attuare il suo programma di vita con esse. Il primo motivo è fondato, ed al suo accoglimento consegue la cassazione della sentenza impugnata con assorbimento dei restanti motivi in ordine al danno non patrimoniale.
La sentenza è stata depositata il 9.3.2013, e di conseguenza la sua impugnazione, quanto al vizio di motivazione, è assoggettata ai più ristretti limiti di sindacato sulla motivazione fissati dall’art. 54,primo comma lett. b) del d.l. n. 83 del 2012, conv. in legge n. 134 del 2012.
Tuttavia, essa appare viziata pur in riferimento a questa più ristretta nozione di vizio di motivazione perché la motivazione stessa risulta ad una attenta lettura meramente apparente. Essa è assai sbrigativa, dà formalmente atto del mutamento radicale avvenuto nella vita del L. e della enorme sofferenza patita da questa seguito della duplice, contestuale perdita, della compagna di vita e della figlioletta appena nata (per poi ridimensionare subito la rilevanza del legame, appena instaurato e subito troncato, con la piccola). Detto questo, la corte d’appello dedica poche altre parole alla questione della quantificazione adeguata o meno del pregiudizio non patrimoniale subito dal L. : si limita ad affermare di ritenere congrua la valutazione unitaria del danno fatta dal primo giudice senza null’altro precisare, senza cioè chiarire, nella sua valutazione, come si arrivi all’importo riconosciuto al L. ad integrale riparazione del pregiudizio non patrimoniale subito, e senza chiarire neppure quali siano stati i criteri adottati dal giudice di primo grado, se questi si sia attenuto nella quantificazione alle tabelle in uso nel distretto o alle tabelle milanesi, se la valutazione è stata equitativa pura, o agganciata a parametri verificabili ed in particolare ai parametri indicati come preferibili da questa Corte.
Va a questo proposito detto che la motivazione della sentenza di appello può legittimamente condividere integralmente e far propria la valutazione compiuta dal giudice di primo grado ma deve essere in ogni caso percorribile nelle sue premesse, nei criteri di quantificazione adottati e nelle sue conclusioni, per consentire di verificare la coerenza delle premesse con le conclusioni, ed anche la legittimità dei criteri di quantificazione prescelti, nonché che sia avvenuta, e che sia stata eseguita in modo adeguato, in ragione di essi, la personalizzazione del danno. Nulla di tutto ciò è accaduto nel caso di specie, in cui la corte d’appello si limita a dire al L. che ha subito una grave perdita, e che essa è stata già integralmente risarcita, senza consentire né al danneggiato di avere contezza del perché si arrivi ad un determinato importo piuttosto che ad un altro, e di farsene una ragione, né al giudice di legittimità di poter verificare la coerenza del ragionamento, perché il ragionamento sostanzialmente manca.
Con il sesto motivo, il ricorrente attacca la sentenza di appello in relazione al rigetto della domanda di liquidazione del danno patrimoniale, lamentando a questo proposito sia la presenza di un vizio di motivazione che la violazione dell’art. 2043 c.c. laddove la corte ha negato il diritto al risarcimento del danno materiale da contribuzione del partner alla gestione familiare. Deduce l’omessa considerazione di un fatto decisivo, costituito dalla convivenza, e dalla conseguente nascita a carico dei partners di precisi obblighi reciproci anche materiali.
La Corte d’appello ha rigettato la domanda sul punto negando che fosse stata fornita la prova di una contribuzione materiale ed economica della defunta al menage familiare, e non ritenendo di poter considerare prestata una prova presuntiva, sulla base del mero fatto noto della convivenza, dal quale argomentare sullo svolgimento di una attività e sulla prestazione di una contribuzione materiale all’andamento e all’organizzazione della casa da parte della defunta B.C.S. , che oltre al lavoro esterno,negli assunti del ricorrente, gestiva e teneva in ordine la casa. Sostiene il L. che la compagna, sulla base della convivenza stabile, avesse un vero e proprio dovere giuridico di contribuire al menage familiare, e di conseguenza che non spettasse al suo compagno dover fornire la prova di ciò, a fondamento della sua pretesa risarcitoria. Si trattava di un danno futuro e certo che avrebbe dovuto essere equitativamente risarcito.
Le argomentazioni del ricorrente non possono essere condivise fino all’accoglimento del motivo.
La motivazione della corte d’appello sul punto si dipana sotto il profilo dell’insufficiente assolvimento dell’onere probatorio, ed appare scevra da vizi.
Non può ritenersi in re ipsa esistente la prova di una perdita patrimoniale derivante dal venire meno della contribuzione economica e, soprattutto, materiale allo svolgimento del menage familiare, e quindi alla organizzazione della casa ed alla pulizia di essa, prestata dal convivente che viene a mancare qualora questi svolga una attività lavorativa esterna. In un regime di normale convivenza, sia essa fondata sul matrimonio o meno, l’apporto economicamente apprezzabile sotto forma di danno patrimoniale, in caso di perdita del congiunto o convivente, alla gestione familiare, sotto forma di lavoro domestico e di organizzazione della vita familiare, può presumersi infatti qualora il convivente si dedichi esclusivamente alla cura della casa (sulla liquidazione del danno patrimoniale da perdita del lavoro domestico svolto da un familiare deceduto per colpa altrui v. Cass. n. 22909 del 2012, Cass. n. 18092 del 2005). Nel caso invece in cui questi svolga una attività lavorativa esterna, il danno non può reputarsi in re ipsa, né la prova può desumersi in via presuntiva dal solo fatto della convivenza, ma è necessario che sia fornita la prova, positiva, che questi, oltre ad essere impegnato in una attività lavorativa esterna, dedicasse parte delle sue energie residue, in modo significativo ed economicamente apprezzabile tanto da costituire una possibile posta di danno per equivalente, alla cura della casa.
Il sesto motivo va pertanto respinto.

P.Q.M.

Accoglie il primo motivo, rigetta il sesto, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Venezia in diversa composizione.