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L'Avv. VANIA SCIARRA è avvocato matrimonialista specializzato nel diritto di famiglia, in particolare nella soluzione stragiudiziale e giudiziale delle controversie in ambito matrimoniale, SEPARAZIONI e DIVORZI, e nell'ambito di CONVIVENZA more uxorio.
E' possibile ricevere assistenza legale - oggi grazie anche all'introduzione del PCT (Processo Civile Telematico) - SULL'INTERO TERRITORIO NAZIONALE, ed in tempi brevissimi, grazie agli interventi legislativi di modifica apportati in materia con il D.L. 12 settembre 2014 n. 132 (G.U. n. 212 del 12.09.2014)(Procedura di negoziazione assistita da un avvocato - Divorzio breve).




Basta separazioni per colpa quando il partner tollera il tradimento


Basta separazioni per colpa quando il partner tollera il tradimento



Basta separazioni per colpa, il matrimonio finisce anche quando, all'interno della coppia, uno dei due e' disposto a tollerare tradimenti o comportamenti che denotano mancanza di progetti in comune. Lo sottolinea la Cassazione, osservando che oggi anche la giurisprudenza si e' evoluta in fatto di separazioni per cui il giudice chiamato ad esprimersi sul crac matrimoniale e' sempre meno disposto ad assegnare colpe per il fallimento nuziale. In base "alla condizione dell'uomo medio ", dice infatti la Cassazione, il matrimonio finisce quando anche uno solo dei due si "dissafeziona ". Al di la' della "violazione dei doveri coniugali " visto che non tutte le "violazioni " sono causa di fine nozze.
Il chiarimento arriva dalla prima sezione civile della Corte (sentenza n.2274/2012) che si è occupata del caso di una coppia in cui il marito da diversi anni era andato a vivere con un'altra donna dalla quale ha avuto anche un figlio. La donna si era opposta alla separazione sostenendo che nonostante il tradimento di suo marito mancavano i presupposti per dichiarare l'intollerabilità della convivenza e la separazione giudiziale dato che lei aveva tollerato il comportamento del marito. 
Una tesi che non ha fatto breccia davanti alla Suprema Corte che, al contrario, ha condiviso le argomentazioni dei giudici di merito secondo cui "la disponibilita' unilaterale della moglie a sopportare tale situazione non puo' valere ad impedire la sussistenza della intollerabilita' della convivenza tra i coniugi, che costituisce il presupposto della pronuncia di separazione giudiziale, intollerabilita' strettamente collegata all'esistenza di una nuova famiglia". La Corte in particolare ricorda come in materia di separazioni "nessuna differenza e' posta tra coniuge colpevole o incolpevole, se di 'colpa' si deve ancora parlare, e pertanto anche il coniuge colpevole puo' chiedere la separazione, affermando che proprio il suo comportamento ha condotto all'intollerabilita' della convivenza". Insomma per dichiarare la separazione "non e' piu' necessaria la sussistenza di una situazione di conflitto riconducibile alla volonta' di entrambi i coniugi, ben potendo la frattura dipendere dalla condizione di disaffezione e distacco spirituale di una delle parti, tale da rendere per lei intollerabile la convivenza verificabile in base a fatti obiettivi emersi, compreso il comportamento processuale con particolare riferimento al tentativo di conciliazione". Aggiunge infine la Corte che al di là della sopportazione della moglie lui aveva comunque dimostrato disaffezione per la vita matrimoniale.
 


SENTENZA STORICA PER I GAY SPOSATI ALL'ESTERO: hanno diritto a una vita familiare.


Sentenza storica per i gay sposati all’estero: hanno diritto a una vita famigliare

Il giudice Tanasi non ha riconosciuto il matrimonio gay contratto dagli sposi in Spagna, ma la convivenza regolare nel nostro paese con permesso di soggiorno per il coniuge straniero. Rigettare l’istanza, si legge nella sentenza, avrebbe potuto configurare una discriminazione fondata sull'orientamento sessuale, la cui illegittimità è stata più volte ribadita dalle normative europee e da una risoluzione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite del giugno 2011.
Le coppie omosessuali sposate all’estero sono una “famiglia”, pertanto se un coniuge non è italiano ha diritto al permesso di soggiorno. Lo ha deciso in una sentenza il Tribunale di Reggio Emilia, che ha accolto il ricorso di una coppia sposatasi in Spagna e composta da un italiano e da un uruguaiano, imprenditore quarantenne lui e disoccupato trentenne l’altro lui. Coppia che, tornata a casa, dopo il matrimonio celebrato a Palma di Maiorca, aveva ricevuto il ‘no’ della Questura di Reggio Emilia. Il coniuge, aveva sottolineato il questore Domenico Savi, non è originario di un paese membro dell’Unione Europea pertanto non può vivere in Italia.

Nessun ricongiungimento famigliare per gli sposi, quindi, quel principio che consente a chi è italiano, o vive in Italia con permesso di soggiorno, di accogliere i propri famigliari per riunire il nucleo affettivo. Perché la legge Bossi – Fini, che disciplina l’immigrazione, impedisce agli extracomunitari di accedere a questo passaggio e in Italia il matrimonio gay non è riconosciuto.

La coppia aveva prontamente annunciato il ricorso contro la decisione della Questura, ritenuta “discriminatoria” dall’opinione pubblica omosessuale italiana, ma i pronostici non erano affatto favorevoli. E invece, a sorpresa, persa la battaglia gli sposini hanno vinto la guerra. Nel ricorso, presentato dall’avvocato Giulia Perin e concordato con il direttivo Certi Diritti, associazione radicale impegnata nella promozione della libertà sessuale, infatti, non si è chiesta l’approvazione del matrimonio spagnolo ma il diritto per i coniugi, sebbene non riconosciuti, ad avere una vita familiare in Italia.

Gli avvocati, per convincere il giudice, hanno fatto riferimento alla recente sentenza n. 1328/2011 della Corte di Cassazione, che afferma da un lato la nozione di “coniuge” prevista dall’art. 2 d.lgs. n. 30/2007, che deve essere determinata alla luce dell’ordinamento straniero in cui il vincolo matrimoniale è stato stipulato. E dall’altro, che lo straniero che abbia contratto in Spagna un matrimonio con un cittadino dell’Unione dello stesso sesso deve essere qualificato quale “familiare”, ai fini del diritto al soggiorno in Italia.

Un principio sancito anche dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 138 del 2010, che riconosce “il diritto fondamentale di vivere liberamente una condizione di coppia” all’unione omosessuale “intesa come stabile convivenza tra due persone dello stesso sesso”. “Il diritto all’unità della famiglia” si legge anche sul testo della sentenza “che si esprime nella garanzia della convivenza del nucleo familiare (…) costituisce espressione di un diritto fondamentale della persona umana”.

Il verdetto, quindi, è stato favorevole e il giudice Domenica Tanasi ha dettò sì, la coppia può convivere in Italia. Un passo avanti significativo “per l’affermazione della non discriminazione delle coppie omosessuali” scrive in un comunicato l’associazione Certi Diritti.

“Una bella notizia, non solo perché a ridosso di San Valentino si è ribadito il diritto a vivere insieme per due persone innamorate” ha aggiunto Sergio Lo Giudice, ex presidente Arcigay e capogruppo del Pd in Comune a Bologna “ma anche perché è una delle prime sentenze che riprendono il provvedimento della Corte Costituzionale. Ciò dimostra anche l’importanza che assumono le aule giudiziarie nel riconoscimento dei diritti delle persone gay, a fronte di un Parlamento ignavo che non agisce nonostante a livello europeo tali diritti siano riconosciuti ormai in tutti i paesi”.

“Tra l’altro” ha aggiunto Lo Giudice “esiste già una direttiva dell’Unione Europea sulla libera circolazione, mai recepita dall’Italia, che concede a tutti i cittadini comunitari omosessuali il diritto a vivere in un qualunque paese dell’Unione con il proprio partner, anche se è extracomunitario, in virtù del legame affettivo. E in questo caso parliamo di persone sposate, tra l’altro”.

Come ha ricordato il giudice Tanasi, rigettare l’istanza avrebbe inoltre potuto configurare una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale, la cui illegittimità è stata più volte ribadita dalle normative europee e in particolare, recentemente, da una risoluzione di portata storica, approvata dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite il 17 giugno 2011.

“Speriamo che ora il Governo decida di riconoscere queste unioni tra i cittadini italiani come richiesto dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 138/2010” auspicano dall’associazione Certi Diritti. “Sarà un processo lento ma inesorabile” ha concluso Lo Giudice. “Presto il Parlamento, se non si deciderà a legiferare, si troverà a dover prendere atto di uno stato riconosciuto dai tribunali di tutta Italia”.
Il fatto quotidiano.it



QUANDO CESSA IL DOVERE DI MANTENIMENTO DEI FIGLI MAGGIORENNI?
Avv. Vania Sciarra
A lungo si è discusso in merito al momento in cui cessa il diritto di assistenza materiale. L'assunto infatti secondo cui l'obbligazione trovi la sua fine con il compimento della maggiore età è divenuto oggi anacronistico.
La maggior parte delle persone che vuole o ha la possibilità di frequentare un corso di studi universitario non è in grado di provvedere da sola al proprio sostentamento anche dopo il raggiungimento della maggiore età. La carenza inoltre di offerte di lavoro nonché la sempre maggior specializzazione che viene richiesta in ogni campo porta a ritardare sempre più l'età di un'indipendenza economica. A tal proposito è oramai consolidato in giurisprudenza l'indirizzo secondo cui i genitori restano obbligati a concorrere nel mantenimento del figlio divenuto maggiorenne qualora non abbia ancora conseguito un reddito tale da renderlo economicamente autonomo (Cass. 11 dicembre 1992, n. 13126 in Dir. Fam. e pers. 1993, 497; Cass. 29 dicembre 1990, n. 12212 in Giust. Civ. 1991, I, 3033; Cass. 26 gennaio 1990, n. 475 in Giust. Civ., Mass., 1990.). Si assimila così la posizione del figlio maggiorenne, che non ha ancora raggiunto, senza sua colpa, l'autosufficienza economica, alla posizione del figlio minorenne.
Secondo la Cassazione in particolare l'obbligo dei genitori di concorrere tra loro, secondo le regole di cui all`art. 148 c.c., al mantenimento dei figli non cessa automaticamente con il raggiungimento, da parte di questi, della maggiore età`, ma persiste finche` il figlio stesso non abbia raggiunto l`indipendenza economica (o sia stato avviato ad attività` lavorativa con concreta prospettiva di indipendenza economica), ovvero finche` non sia provato che, posto nelle concrete condizioni per poter addivenire all'autosufficienza economica, egli non ne abbia, poi, tratto profitto per sua colpa (Cass., sez. I 7 maggio 1998, n. 4616, cit.).
Come accennato, inoltre, l'obbligo di mantenimento ricomprende l'educazione e l'istruzione. Non è pertanto possibile prevedere in astratto un termine finale, in quanto il raggiungimento dell'indipendenza economica varia caso per caso e non può semplicemente essere presunto al raggiungimento di una determinata età (Cass. 13 ottobre 1982, n. 5271, in Mass. 1982 ; Cass. 3 luglio 1991, n. 7295; Cass. 11 dicembre 1992, n. 13126 cit.).
Il figlio ha infatti il diritto di essere posto in condizioni di terminare il ciclo di studi e di acquistare una propria professionalità nel campo lavorativo prescelto. Di conseguenza è stato ritenuto che il proseguimento degli studi superiori imposto o anche soltanto consentito dal genitore, attribuisce il diritto al figlio, che abbia raggiunto la maggiore età, di chiedere ed ottenere i mezzi per completare i corsi iniziati ed a tale onere il genitore può sottrarsi soltanto se dimostra una colpevole trascuratezza del figlio negli studi ( Pret. Foligno 30 marzo 1989, in Arch. Civ., 1989, 870; nello stesso senso Trib Messina, 9 settembre 1984; Trib. Genova 13 marzo 1981 in Giur. Merito 1982, I, 308).
Pertanto, si sottolinea come il diritto al mantenimento prescinda dall'esercizio della potestà genitoriale (Cass. 5 dicembre 1996, n. 10849 in Foro it. 1997, I, 3337; Cass. 8 settembre 1998, 8868, in Giur. It. 1999, 916). Mentre infatti la potestà genitoriale finisce al raggiungimento della maggiore età dei figli, l'obbligo di mantenimento non ha un termine finale fissato per legge, e pertanto la sua sussistenza resta affidata al buon senso dei genitori o alla discrezionalità del giudice nel caso in cui vi sia una separazione o un divorzio. Così mentre i genitori rimangono obbligati a provvedere ai bisogni del figlio, non possono più dopo la maggiore età intervenire sulle sue scelte.
La ratio di ciò viene ravvisata dalla giurisprudenza nelle più recenti e accreditate correnti di pensiero sulle tematiche sociali in riferimento ai rapporti di famiglia che rafforzano il profilo della responsabilizzazione dei soggetti coinvolti in ordine alle conseguenze tutte, a breve e lungo termine, morali anzitutto, ma anche economiche, della procreazione, fenomeno, questo, del quale si tende a sollecitare, evidenziandone la sempre più avvertita esigenza, in relazione ai mutamenti intervenuti nella società odierna ed a quelli prevedibili nel suo anche immediato futuro, una forte presa di coscienza della necessità di farne un atto assolutamente volontario e consapevole. ( C. App. Roma 29 maggio 1995, in Diritto di famiglia 1996, 105).
 
La cessazione dell'obbligo.
Il fatto che l'obbligo dei genitori di concorrere tra loro al mantenimento dei figli non cessi automaticamente con il raggiungimento della maggiore età non significa che sussista dove il mancato inserimento nel mondo del lavoro sia causato da negligenza o comunque dipenda da fatto imputabile al figlio (Cass. 16 febbraio 2001, n. 2289, in Famiglia e diritto, 2001, 275). Quando infatti la situazione dipenda da una colpa del figlio che non si è messo in condizione di procurarsi un reddito, o comunque abbia raggiunto un'età tale da far presumere la sua capacità di provvedere a sé stesso il genitore può ritenersi liberato dall'obbligo di mantenimento (Cass. 8 settembre 1998, n. 8868 cit.). Allo stesso modo l'obbligo viene meno quando il figlio versi in colpa per non essersi messo in condizione di conseguire un titolo di studio o di procurarsi un reddito mediante l'esercizio di un'idonea attività lavorativa o per avere detta attività ingiustamente rifiutato (Cass. 27 febbraio 1990, n. 1506 in Giur it. Mass. 1990, 206; Cass. 11 dicembre 1992, n. 13126, cit.; Cass. 23 gennaio 1996, n. 496, in Giust. Civ. 1996, I, 954).
Il diritto al mantenimento così viene meno qualora l'ex minore sia stato posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente senza trarne utilmente profitto per sua colpa o per sua scelta (Cass. 11 marzo 1998, n. 2670; Cass. sez I, 18 febbraio 1999, n. 1353 in Famiglia e diritto 1999, 455; Cass. 3 dicembre 1996, n. 10780 in Famiglia e diritto, 1997, 247;Cass. 20 settembre 1996, n. 8383; Cass. 2 settembre 1996, n. 7990 in Famiglia e diritto,1996, 522; Cass. 4 marzo 1998, n. 2392 in Famiglia e diritto 1998, 389).
In particolare l'obbligo perdura, immutato, finché il genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell'obbligo stesso non dia la prova che il figlio ha raggiunto uno status di autosufficienza economica, che viene considerato dalla giurisprudenza consistente nella percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita in relazione alle normali e concrete condizioni di mercato ( non rilevando all'uopo il tenore di vita finora da lui condotto). Il genitore deve infatti assicurare al figlio un'istruzione e una formazione professionale rapportate alle capacità del figlio oltreché alle condizioni economiche e sociali dei genitori. (Nella specie, è stata esclusa la persistenza dell'obbligo di mantenimento di un figlio trentacinquenne - e convivente con la madre - a carico del padre separato per essere il figlio stesso ben lontano dal conseguimento della laurea in medicina nonostante risultasse iscritto presso tale facoltà da quindici anni, e senza che il suo comportamento potesse in qualche modo derivare o risentire della presenza paterna, essendo trascorso un periodo pressoché equivalente a quello necessario per l'utile completamento dell'intero corso di studi da quando il padre aveva cessato di convivere con moglie e figli) (Cass., sez. I, 30 agosto 1999, n. 9109 in Famiglia e diritto, 1999, 576).
Si ritiene anche che l'obbligo di prestare assistenza materiale cessi quando il figlio, pur non economicamente indipendente contragga matrimonio. In questo caso infatti prevarrà l'obbligo di assistenza materiale a carico dell'altro coniuge. L'obbligo infatti viene meno quando i figli siano inseriti in altri nuclei familiari o comunitari, interrompendo in tal modo il legame e la dipendenza materiale e morale con la famiglia d'origine (C. App. Roma 29 maggio 1995, cit.; Cass. 28 giugno 1988, 4373, in Mass. 1988).
L'obbligo di mantenimento inoltre non viene meno in caso di irregolare condotta morale tenuta dal figlio, non costituendo la stessa causa sufficiente a far estinguere il diritto (Pret. Foligno 22 giugno 1973).
La Cassazione ha inoltre precisato che il diritto di percepire gli assegni di mantenimento riconosciuti, in sede di separazione, da sentenze passate in giudicato o, da verbali di separazione consensuale omologata può essere modificato, ovvero estinguersi del tutto, solo attraverso la procedura prevista dall'art. 710 c.p.c (oltre che per accordo tra le parti), con la conseguenza che la raggiunta maggiore età del figlio (minore all'epoca della separazione) e la raggiunta autosufficienza economica del medesimo non sono, di per sè, condizioni sufficienti a legittimare, ipso facto, la mancata corresponsione dell'assegno. (Cass., sez. I, 16 giugno 2000 n.8235 in Famiglia e diritto, 2000, 513). E' necessaria infatti una domanda giudiziale del coniuge onerato dell'assegno nonché l'accertamento - riservato al prudente apprezzamento del giudice, sorretto da opportuna istruttoria dell'acquisizione di un'adeguata autosufficienza economica da parte del figlio stesso (Cass. sez. I., 29 dicembre 1990, n. 12212 cit.).
Peraltro incombe sul genitore, che chiede l'interruzione dell'obbligo di mantenimento, l'onere di provare la sussistenza di una delle condizioni giustificative. (Cass. 22 gennaio 1998, n. 565 in Giur. It. 1999, 34; Cass. 29 dicembre 1990, n. 12212, cit.; Cass. 17 settembre 1993, n. 9578, in Giust. Civ. 1994, I, 79; Cass. 21 dicembre 1995, n. 13039, in Giust. Civ. 1996, I, 1691; Cass. 2 settembre 1996, n. 7990, cit.). E' lui infatti che deve dimostrare che il figlio persiste in un atteggiamento di inerzia nella ricerca di un lavoro compatibile con le sue attitudine e la sua professionalità o che ha rifiutato corrispondenti occasioni di lavoro (Cass. 11 marzo 1998, n. 2670). Non spetta dunque al genitore ancora convivente l'onere di provare che il figlio non ha ancora raggiunto l'indipendenza economica (Cass. 16 febbraio 2001, n. 2289, cit.).
 
L'orientamento più recente.
Di recente un'ulteriore sentenza della Cassazione è andata addirittura oltre i principi esposti, sostenendo che il figlio ha diritto ad essere mantenuto dai genitori allo stesso loro tenore di vita anche se ha rifiutato una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione le sue attitudini e i suoi effettivi interessi sono rivolti (Cass. 3 aprile 2002, n. 4765, in Guida al diritto 2002/17/34 e in Famiglia e diritto, 2002, 351: nella specie la Suprema Corte ha confermato la pronuncia dei giudici del merito che nel 1999 avevano riconosciuto alla madre separata con cui uno dei figli, allora ventinovenne, laureato in giurisprudenza, conviveva il diritto a percepire un assegno di un milione e mezzo a carico del padre, non avendo ancora l'ex minore trovato un'attività lavorativa adeguata alle sue aspirazioni, il mantenimento veniva così configurato in 3.000.000 diviso tra i due genitori).
La sentenza, criticata dalla dottrina, ha introdotto ben due aspetti nuovi. Innanzitutto si sostiene che non è sufficiente che il figlio venga posto nelle condizioni di rendersi economicamente autosufficiente, ma è invece necessario che realizzi concretamente le proprie aspirazioni. In particolare si legge nella motivazione della sentenza che in merito all'accertamento del comportamento colposo ed inerte del figlio il giudice non può che ispirarsi a criteri di relatività, in quanto necessariamente ancorato alle aspirazioni, alle capacità, al percorso scolastico, universitario e post universitario del soggetto e alla situazione attuale del mercato del lavoro, con specifico riguardo al settore nel quale egli abbia indirizzato la propria formazione e la propria specializzazione, investendo impegno personale ed economie familiari. Pertanto su tali basi la Cassazione non ha ravvisato profili di colpa nella condotta del figlio che rifiuta una sistemazione lavorativa non adeguata rispetto a quella cui la sua specifica preparazione, le sue attitutidini, ed i suoi effettivi interessi siano rivolti, quanto meno nei limiti temporali in cui dette aspirazioni abbiano una ragionevole possibilità di essere realizzate e sempre che tale atteggiamento di rifiuto sia compatibile con le condizioni economiche della famiglia.
In realtà la giurisprudenza aveva già affermato che non può ritenersi, idonea ad esonerare il genitore non convivente dall'obbligo di mantenimento la profferta di una qualsiasi occasione di lavoro eventualmente rifiutata dal figlio, dovendo essa risultare, per converso, del tutto idonea rispetto alle concrete e ragionevoli aspettative del giovane, si` da far ritenere il suo eventuale rifiuto privo di qualsivoglia, accettabile giustificazione (Cass., sez. I 7 maggio 1998, n. 4616cit.). Si trattava però di un'ipotesi ben diversa a causa soprattutto dell'età del ragazzo (Il principio è stato affermato dalla S.C. in relazione al rifiuto - ritenuto, nella specie, legittimo, contrariamente a quanto stabilito dal giudice di merito - opposto dal figlio ventenne di genitori separati ad una offerta di ingaggio per un anno, e per la somma di ottocentomila lire mensili più vitto ed alloggio, ricevuto da una società di pallacanestro. La corte di legittimità, nel cassare la sentenza, ha, ancora, osservato che, in essa, mancava ogni valutazione tanto in ordine alla precarietà dell'offerta quanto alla ragionevolezza delle aspirazioni del giovane, che vi aveva rinunciato per non sacrificare l'anno scolastico - V liceo scientifico - da lui frequentato).
Inoltre secondo Cass. 4765/2002 il mantenimento assicurato dai genitori deve addirittura garantire al figlio un tenore di vita corrispondente alle risorse economiche della famiglia ed analogo per quanto possibile a quello goduto in precedenza (Nello stesso senso, ma relativa ai figli minori: Cass. 22 novembre 2000, n. 15065).
Avv. Vania Sciarra