Divorzio. Pensione di reversibilità. Criteri di riparto tra coniuge superstite e divorziato
Ai fini della ripartizione della pensione di reversibilità tra il coniuge divorziato ed il coniuge superstite, occorre tenere conto, oltre che della durata dei rispettivi vincoli matrimoniali, anche di una serie di altri parametri riconducibili a quelli enucleati dall'art. 5, Legge n. 898/1970, quali le complessive condizioni economiche degli aventi diritto, l'entità dell'assegno attribuito al coniuge divorziato, l'età raggiunta ed ogni altro elemento utile in relazione alla particolarità del caso concreto.
Tribunale di Roma, sentenza 3 agosto 2016
ll Tribunale di Roma ha chiarito che la ripartizione del trattamento di reversibilità non può ridursi ad un mero calcolo matematico i cui addendi siano costituiti dalla durata dei rispettivi matrimoni delle due parti, che, invece, ben può estendersi anche alla convivenza prematrimoniale, postulando altresì, sulla scorta di un principio già da tempo implicitamente affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 419/1999, l'applicazione anche di ulteriori criteri di valutazione, da individuarsi nell'ambito dello stesso art. 5 l. div. in relazione alla determinazione dell'assegno divorzile, trattandosi di elementi funzionali allo scopo di evitare che il primo coniuge sia privato dei mezzi indispensabili per il mantenimento del tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l'assegno di divorzio ed il secondo sia privato di quanto necessario per la conservazione del tenore di vita che il "de cuius" gli aveva assicurato in vita. Concorrono, pertanto, nella determinazione delle quote da attribuirsi rispettivamente al coniuge divorziato ed al coniuge superstite, quali correttivi dell'elemento meramente temporale, una serie di altri parametri riconducibili a quelli enucleati dall'art. 5 l. div., quali le complessive condizioni economiche degli aventi diritto, l'entità dell'assegno attribuito al coniuge divorziato, l'età raggiunta ed ogni altro elemento utile in relazione alla particolarità del caso concreto.
Per quanto attiene alla durata dei rispettivi vincoli matrimoniali, che, comunque, resta uno dei parametri principali dal quale muovere per la ripartizione, fatta salva l'applicabilità dei correttivi di tipo equitativo che possono anche prevalere su quello della durata, occorre far riferimento non già al rapporto formale, ma anche alla convivenza prematrimoniale, al fine di riferire il criterio temporale all'effettiva comunione di vita del de cuius con le due mogli stante la parificazione ormai consolidata che assimila la convivenza more uxorio al rapporto matrimoniale: da ciò consegue che deve ritenersi possibile discostarsi da un rigido criterio basato unicamente sulla durata del matrimonio legale, comprendente anche il periodo successivo alla separazione fino alla sentenza di divorzio, allorché sia notevole lo scarto fra matrimonio e convivenza effettiva ed a tale scarto corrisponda una concomitante convivenza "more uxorio" della nuova coppia. Quel che però occorre rilevare, e che costituisce uno degli specifici elementi in contestazione tra le parti, è che la convivenza rilevante è unicamente quella intervenuta tra il de cuius e la seconda moglie la quale soltanto costituisce elemento che possa prevalere sul vincolo formale nei confronti della prima moglie che in quanto tale si estende fino alla pronuncia di divorzio, mentre del tutto neutrale è l'eventuale convivenza che abbia preceduto il matrimonio della ricorrente, la quale non elide il concorrente diritto di alcuno.
Nella fattispecie, le risultanze istruttorie hanno consentito di appurare che il matrimonio tra il de cuius e la seconda moglie, durato formalmente 5 anni e mezzo, è stato preceduto da una convivenza durata circa dieci anni come emerso dalle univoche deposizioni dei testi ; deve, pertanto, ritenersi accertato che la convivenza ha coperto un arco temporale di 15 anni, a differenza di quella del ricorrente che deve ritenersi di gran lunga inferiore alla durata formale del suo vincolo matrimoniale. Invero, la coabitazione coniugale della ricorrete non può ritenersi superiore ad 11 anni.
Ciò premesso le ulteriori risultanze istruttorie hanno evidenziato che entrambe le donne risiedono in un immobile di loro proprietà, entrambe sono titolari di altri cespiti immobiliari. Diversa è risultata, invece, la loro condizione reddituale, atteso che gli emolumenti retributivi percepiti dalla resistente sono pressoché il doppio dei compensi percepiti dalla ricorrente.
La pensione di reversibilità del de cuius ammonta stando a quanto dedotto dall'ENPAM ad un importo mensile lordo di € 202,53 e di € 2.690,53.
Sulla scorta di tale quadro, pur ritenendosi che il criterio guida nella ripartizione delle quote della pensione di reversibilità sia comunque quello di calibrare l'interesse del primo coniuge a non essere privato dei mezzi indispensabili per il suo mantenimento rispetto al tenore di vita cui era preordinato l'assegno di divorzio e l'interesse del secondo coniuge a mantenere lo stesso tenore assicuratogli dal de cuius in vita, si ritiene, da un canto, di dover valorizzare il maggior contributo fornito dalla parte ricorrente alla conduzione del menage domestico, avuto riguardo alla circostanza che, oltre all'attività lavorativa svolta, si è occupata anche della crescita dei due figli nati in costanza del suo matrimonio e che tuttora grava sulla medesima il mantenimento del secondogenito Giulio, nato in data 10.7.1991, con lei convivente dopo il decesso del padre, ma d'altro canto va tenuto conto sia dell'entità dell'assegno divorzile spettante alla ricorrente, rivalutato alla morte del de cuius ad € 424,00 mensili, sia della maggior durata della convivenza della resistente con il coniuge così come del fatto che sia stata quest'ultima a stargli accanto fino alla sua morte, unitamente alla minor consistenza delle sue proprietà immobiliari che di fatto controbilanciano le maggiori capacità reddituali.
Tanto premesso, il Tribunale ha ritenuto che la quota da attribuirsi alla ricorrente vada quantificata nella misura del 35%, essendo con tale percentuale, superiore all'assegno divorzile di cui beneficiava in precedenza, ampiamente assolta la finalità assistenziale propria della pensione di reversibilità.
Alla seconda moglie deve conseguentemente essere attribuito il restante 65%.
Il diritto della parte ricorrente alla percezione della quota suddetta decorre, nei confronti dell'ente previdenziale erogatore, dal primo giorno del mese successivo al decesso del coniuge assicurato o pensionato. Qualora, pertanto, la pensione - anteriormente alla pronunzia del giudice attributiva di una quota di questa al divorziato - sia stata corrisposta per intero ovvero in maggior misura al coniuge superstite, gli arretrati spettanti al divorziato fanno carico esclusivo all'ente previdenziale erogatore, atteso che solo questi ha titolo per effettuare in modo corretto i conteggi relativi al computo delle somme nello specifico spettanti ai diversi beneficiari e potrà, quindi, recuperare le somme versate in eccesso.
Ove, pertanto, il coniuge superstite abbia percepito medio tempore importi maggiori di quelli attribuitigli con la pronuncia in oggetto a titolo di trattamento di reversibilità corrisposto dall'ente medesimo, spetta a quest'ultimo e non già al coniuge superstite la corresponsione degli arretrati dovuti all'ex coniuge divorziato: all'ente previdenziale deve essere pertanto ordinata, in accoglimento della richiesta accessoria formulata dal ricorrente, la corresponsione degli arretrati eventualmente spettanti a quest'ultima a decorrere dal giorno successivo a quello del decesso del de cuius, salva ovviamente la facoltà per l'ente previdenziale di recuperare dalla resistente le somme versatele in eccesso.
La sentenza in rassegna ritorna sul dibattuto tema dei criteri di ripartizione della pensione di reversibilità tra ex coniuge, titolare di assegno di divorzio, e coniuge superstite.
Il comma 3 dell'art. 9 della legge sul divorzio, nel testo riformato nel 1978, indica un unico criterio che il Tribunale deve tenere in considerazione per ripartire la pensione: la durata del rapporto matrimoniale.
ll Tribunale di Roma ha chiarito che la ripartizione del trattamento di reversibilità non può ridursi ad un mero calcolo matematico i cui addendi siano costituiti dalla durata dei rispettivi matrimoni delle due parti, che, invece, ben può estendersi anche alla convivenza prematrimoniale, postulando altresì, sulla scorta di un principio già da tempo implicitamente affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 419/1999, l'applicazione anche di ulteriori criteri di valutazione, da individuarsi nell'ambito dello stesso art. 5 l. div. in relazione alla determinazione dell'assegno divorzile, trattandosi di elementi funzionali allo scopo di evitare che il primo coniuge sia privato dei mezzi indispensabili per il mantenimento del tenore di vita che gli avrebbe dovuto assicurare nel tempo l'assegno di divorzio ed il secondo sia privato di quanto necessario per la conservazione del tenore di vita che il "de cuius" gli aveva assicurato in vita. Concorrono, pertanto, nella determinazione delle quote da attribuirsi rispettivamente al coniuge divorziato ed al coniuge superstite, quali correttivi dell'elemento meramente temporale, una serie di altri parametri riconducibili a quelli enucleati dall'art. 5 l. div., quali le complessive condizioni economiche degli aventi diritto, l'entità dell'assegno attribuito al coniuge divorziato, l'età raggiunta ed ogni altro elemento utile in relazione alla particolarità del caso concreto.
Per quanto attiene alla durata dei rispettivi vincoli matrimoniali, che, comunque, resta uno dei parametri principali dal quale muovere per la ripartizione, fatta salva l'applicabilità dei correttivi di tipo equitativo che possono anche prevalere su quello della durata, occorre far riferimento non già al rapporto formale, ma anche alla convivenza prematrimoniale, al fine di riferire il criterio temporale all'effettiva comunione di vita del de cuius con le due mogli stante la parificazione ormai consolidata che assimila la convivenza more uxorio al rapporto matrimoniale: da ciò consegue che deve ritenersi possibile discostarsi da un rigido criterio basato unicamente sulla durata del matrimonio legale, comprendente anche il periodo successivo alla separazione fino alla sentenza di divorzio, allorché sia notevole lo scarto fra matrimonio e convivenza effettiva ed a tale scarto corrisponda una concomitante convivenza "more uxorio" della nuova coppia. Quel che però occorre rilevare, e che costituisce uno degli specifici elementi in contestazione tra le parti, è che la convivenza rilevante è unicamente quella intervenuta tra il de cuius e la seconda moglie la quale soltanto costituisce elemento che possa prevalere sul vincolo formale nei confronti della prima moglie che in quanto tale si estende fino alla pronuncia di divorzio, mentre del tutto neutrale è l'eventuale convivenza che abbia preceduto il matrimonio della ricorrente, la quale non elide il concorrente diritto di alcuno.
Nella fattispecie, le risultanze istruttorie hanno consentito di appurare che il matrimonio tra il de cuius e la seconda moglie, durato formalmente 5 anni e mezzo, è stato preceduto da una convivenza durata circa dieci anni come emerso dalle univoche deposizioni dei testi ; deve, pertanto, ritenersi accertato che la convivenza ha coperto un arco temporale di 15 anni, a differenza di quella del ricorrente che deve ritenersi di gran lunga inferiore alla durata formale del suo vincolo matrimoniale. Invero, la coabitazione coniugale della ricorrete non può ritenersi superiore ad 11 anni.
Ciò premesso le ulteriori risultanze istruttorie hanno evidenziato che entrambe le donne risiedono in un immobile di loro proprietà, entrambe sono titolari di altri cespiti immobiliari. Diversa è risultata, invece, la loro condizione reddituale, atteso che gli emolumenti retributivi percepiti dalla resistente sono pressoché il doppio dei compensi percepiti dalla ricorrente.
La pensione di reversibilità del de cuius ammonta stando a quanto dedotto dall'ENPAM ad un importo mensile lordo di € 202,53 e di € 2.690,53.
Sulla scorta di tale quadro, pur ritenendosi che il criterio guida nella ripartizione delle quote della pensione di reversibilità sia comunque quello di calibrare l'interesse del primo coniuge a non essere privato dei mezzi indispensabili per il suo mantenimento rispetto al tenore di vita cui era preordinato l'assegno di divorzio e l'interesse del secondo coniuge a mantenere lo stesso tenore assicuratogli dal de cuius in vita, si ritiene, da un canto, di dover valorizzare il maggior contributo fornito dalla parte ricorrente alla conduzione del menage domestico, avuto riguardo alla circostanza che, oltre all'attività lavorativa svolta, si è occupata anche della crescita dei due figli nati in costanza del suo matrimonio e che tuttora grava sulla medesima il mantenimento del secondogenito Giulio, nato in data 10.7.1991, con lei convivente dopo il decesso del padre, ma d'altro canto va tenuto conto sia dell'entità dell'assegno divorzile spettante alla ricorrente, rivalutato alla morte del de cuius ad € 424,00 mensili, sia della maggior durata della convivenza della resistente con il coniuge così come del fatto che sia stata quest'ultima a stargli accanto fino alla sua morte, unitamente alla minor consistenza delle sue proprietà immobiliari che di fatto controbilanciano le maggiori capacità reddituali.
Tanto premesso, il Tribunale ha ritenuto che la quota da attribuirsi alla ricorrente vada quantificata nella misura del 35%, essendo con tale percentuale, superiore all'assegno divorzile di cui beneficiava in precedenza, ampiamente assolta la finalità assistenziale propria della pensione di reversibilità.
Alla seconda moglie deve conseguentemente essere attribuito il restante 65%.
Il diritto della parte ricorrente alla percezione della quota suddetta decorre, nei confronti dell'ente previdenziale erogatore, dal primo giorno del mese successivo al decesso del coniuge assicurato o pensionato. Qualora, pertanto, la pensione - anteriormente alla pronunzia del giudice attributiva di una quota di questa al divorziato - sia stata corrisposta per intero ovvero in maggior misura al coniuge superstite, gli arretrati spettanti al divorziato fanno carico esclusivo all'ente previdenziale erogatore, atteso che solo questi ha titolo per effettuare in modo corretto i conteggi relativi al computo delle somme nello specifico spettanti ai diversi beneficiari e potrà, quindi, recuperare le somme versate in eccesso.
Ove, pertanto, il coniuge superstite abbia percepito medio tempore importi maggiori di quelli attribuitigli con la pronuncia in oggetto a titolo di trattamento di reversibilità corrisposto dall'ente medesimo, spetta a quest'ultimo e non già al coniuge superstite la corresponsione degli arretrati dovuti all'ex coniuge divorziato: all'ente previdenziale deve essere pertanto ordinata, in accoglimento della richiesta accessoria formulata dal ricorrente, la corresponsione degli arretrati eventualmente spettanti a quest'ultima a decorrere dal giorno successivo a quello del decesso del de cuius, salva ovviamente la facoltà per l'ente previdenziale di recuperare dalla resistente le somme versatele in eccesso.
La sentenza in rassegna ritorna sul dibattuto tema dei criteri di ripartizione della pensione di reversibilità tra ex coniuge, titolare di assegno di divorzio, e coniuge superstite.
Il comma 3 dell'art. 9 della legge sul divorzio, nel testo riformato nel 1978, indica un unico criterio che il Tribunale deve tenere in considerazione per ripartire la pensione: la durata del rapporto matrimoniale.